Hannah Arendt e la banalità del male: intervista al prof. Fabio Contu
Il giorno 24 gennaio abbiamo partecipato alla visita alla Casa dello studente di corso Gastaldi. Oltre a entrare nelle celle di quello che è stato il luogo delle torture naziste di molti genovesi, partigiani e non, sono stata ad ascoltare la presentazione del libro di Hanna Arendt (nella foto) con molto interesse. In particolare mi hanno colpito alcuni ragionamenti della filosofa sulla banalità del male. Colpita a tal punto, che subito dopo la conferenza mi sono procurata il libro e una volta letto mi sono posta innumerevoli domande. Per mia fortuna, ho avuto la possibilità di intervistare il prof. Contu e di porgliene alcune.
Perché ricordarci nel 2019 ancora di Hannah Arendt?
Secondo me, in primis, bisogna ricordarci di Hannah Arendt perché è attuale non solo per le risposte che dà, ma soprattutto per i problemi che apre. In particolare ce ne è uno, su quale io stesso mi sto arrovellando da parecchio tempo. Perché Hannah Arendt ad un certo punto parla della complicità dei capi delle comunità ebraiche con lo sterminio nazista. Lei sostanzialmente racconta che i capi delle comunità ebraiche ritenevano di non aver scelta, nel senso che i nazisti avevano dato loro soltanto due possibili opzioni, o collaborare dando una serie di nomi e quindi salvando tutti gli altri, oppure fare finire nei lager tutti quanti. Questo avrebbe indotto i capi delle comunità ebraiche a collaborare, in pratica è la scelta del male minore.
Sul tema del male minore mi sto arrovellando da un po’ di tempo: da un lato ha ragione Hannah Arendt quando dice che compiere il male minore comunque significa compiere un male, quindi in realtà tu non stai salvando delle vite, ma stai rispondendo a due opzioni che ti ha dato il nemico e quindi stai facendo, in ogni caso, il suo gioco. Ma non è solo questo, la Arendt dice un'altra cosa molto interessante, dice che c’è sempre una terza via, che è non fare niente, ovvero il fatto di dire io non collaboro, non mi muovo e in questo modo getto nel caos i nazisti, perché a quel punto sta a loro dover organizzare la deportazione di tutti gli ebrei.
Tutto questo è molto vero, secondo me, in un caso come quello di Hannah Arendt, dove è molto chiaro quale è il male. Il problema è che nel quotidiano non sempre è così chiaro. Sarà anche per la formazione cattolica da cui provengo e da cui poi mi sono affrancato, ma sono cresciuto con l’idea che la violenza è sempre il male, uccidere una persona è male.
Solo quando ho incontrato quel vecchio partigiano, un episodio che ho ricordato alla Casa dello studente, a cui avevo chiesto se fosse stato così difficile imbracciare il fucile e mi aspettavo che lui o mi dicesse “si, è stato difficilissimo è stato un tormento morale”, oppure mi dicesse “no, io li volevo ammazzare tutti” e invece ha risposto “ non era un fucile, ma era un mitra!” ho cominciato a rendermi conto che il male lo individui, non nei mezzi, ma negli scopi. Perché uccidere un uomo è un male, sì, però la Resistenza in Europa non è che l’abbiano fatta con i fiori nei cannoni.. Ci sono dei mezzi che intrinsecamente sono anche cattivi, ma che servono purtroppo per realizzare uno scopo che è positivo. Lo stesso discorso vale anche al contrario, un mezzo molto buono può realizzare un male. Come per esempio in tempi di democrazia, nessuno direbbe che è stato abolito il diritto di voto, il suffragio universale. Però se io voto per eleggere dei rappresentanti a cui assegnare un certo potere, quello è il mio esercizio di sovranità, ma se io voto per delegare ad altri la mia sovranità e quindi sostanzialmente autorizzo una classe politica poi a fare quello che vuole, a quel punto io sto avvallando il loro potere con il mio voto; cioè sto usando uno strumento corretto, anche giusto, però nel modo sbagliato, con il fine sbagliato. Questo apre tutta una serie di domande, sulle quali io mi sto ancora interrogando.
Alla fine è bello tornare su Hannah Arendt, perché la sua è l’ultima grande riflessione etica che sia sta fatta nel Novecento e la sua attualità sta proprio nelle domande che apre. In fin dei conti una grande riflessione deve fare proprio questo…“.
Perché la nostra società dovrebbe essere pluralista?
Deve essere pluralista perché le società col pensiero unico le abbiamo sperimentate e non funzionano. Cioè sono società che anche quando il pensiero unico è mosso dai valori migliori in realtà poi trasgrediscono con gli stessi valori nei quali dicono di credere. Questo è il problema che abbiamo, io non ne faccio mai mistero di essere assolutamente di sinistra. Nutro anche una certa simpatia per Lenin, nel momento in cui effettivamente guida la Rivoluzione russa, però l’idea di Lenin era quella di dare tutto il potere ai Soviet, il che voleva dire creare delle condizioni per una democrazia reale dal basso, dove le decisioni fossero il frutto di un dibattito continuo. Invece in brevissimo tempo è diventata tutt’altra cosa, cioè ha infranto le sue stesse promesse ed è diventato il totalitarismo che conosciamo come Stalinismo, il pensiero unico, il monolitismo del partito che porta poi la società in un'altra direzione, non tanto diversa da quella di Hitler e neanche da quella di Mussolini. Ha ragione Hannah Arendt a dire che lo Stalinismo è un totalitarismo, non ha ragione quando dice che quello fascista è un totalitarismo meno realizzato, in realtà forse ne sapeva solo meno, come purtroppo alcuni politici Italiani.
Al giorno d’oggi il ritorno di atteggiamenti e/o comportamenti fascisti è più una questione di banalità o di ignoranza?
Le due cose vanno insieme di pari passo, quanto più si è ignoranti, tanto più facilmente si è banali. La banalità si nutre di ignoranza, non solo di quella, perché c’è una grande banalità in persone che hanno anche studiato. In particolare uno pseudo filosofo di questo periodo, Diego Fusaro, usa Marx per fargli dire delle cose che danno ragione a Salvini.
Diciamo che tentare di essere il meno ignoranti possibile è già un strumento che aiuta ad essere meno banali possibile. È la condizione che non è sufficiente però è necessaria. Quindi io credo che ci siano entrambe le cose: l’ignoranza non è che deresponsabilizzi, cioè l’ignoranza è una responsabilità, perché noi abbiamo anche la possibilità di non essere ignoranti, non è un destino essere ignoranti. Quindi quando sento dire: “Hanno detto una cosa sostanzialmente fascista, ma tanto non sanno nemmeno loro quello che dicono”, questo non diminuisce il problema, anzi forse lo aggrava. Soprattutto in tempi in cui va di moda dire che certe cose rappresentano delle attenuanti, in realtà sono delle aggravanti. Mi sto riferendo in modo particolare alle ultime sentenze contro le donne. Il problema della banalità è che non pensi alle conseguenze delle tue azioni, che tanto non te ne senti responsabile e questo va a braccetto con l’ignoranza. Quindi tentare di lottare contro la propria ignoranza è un modo per lottare contro il demone della banalità.
Questo è il problema, anche esistenziale, secondo me, che pone la Arendt in modo indiretto: Che cosa è il bene, se questo è il male?. Ma pone anche altre domande, ugualmente importanti come: Dove alberga la banalità in me? E quindi di conseguenza: Che cosa posso fare io per resistere al male? Quest’ultima domanda è molto personale, io su questo sono dell’idea che nessun grande cambiamento sociale possa escludere il cambiamento personale, ciascuno deve cambiare dentro di sé. Il primo problema devi affrontarlo con te stesso, per maturare l’autorevolezza per parlarne con altri. E siccome i tempi della storia ti dicono che bisogna fare in fretta, perché lo vedi come si imbarbarisce velocemente la gente, allora vuol dire che quel problema con se stessi bisogna affrontarlo molto velocemente...
Viviamo sicuramente in un’epoca in cui abbiamo perso i punti di riferimento. Ogni anno si celebrano anniversari dell’eccidio del Turchino, della Benedicta oppure della Liberazione… a forza di celebrazioni, allontanandoci nel tempo da quell’evento, si è perso po’ il senso. La domanda è: come si può ridare senso a quella storia?
Occorre ridefinire tutta la memoria. Il problema, per quel che riguarda per esempio la memoria del 25 aprile, non è solo che ci allontaniamo dall’evento, ma è anche che lo abbiamo custodito male, perfino quando eravamo più vicini all’evento. Abbiamo fatto diventare i 25 aprile delle messe cantate, delle prediche ai convertiti, delle cose in cui ci raccontavamo quanto la resistenza è stata eroica. Invece non l’abbiamo mai raccontata nel modo più giusto, il che non vuole dire fare l’operazione che ha fatto Gianpaolo Panza, ovvero spiegando che i partigiani hanno fatto cose atroci. Perché non si devono avere dubbi su dove fosse la ragione e dove fosse il torto, però, per esempio noi abbiamo raccontato la Resistenza come una questione tutta Italiana, come una prosecuzione del Risorgimento. E quindi abbiamo tentato di raccontarla dandone una versione molto nazionalista, e questo è un problema, che chiaramente è stata una scelta tutta politica, siccome in Italia non c’è mai stato uno spirito nazionale, perché l’Italia non è mai stata una vera nazione, e forse, va anche bene così, quindi si è cercato di costruirne una sulle memorie della Resistenza. Questo ha significato, che se ne è fatto un uso sbagliato, se invece avessimo collocato la Resistenza su un quadro Europeo avremmo capito che l’Italia partecipava ad un disegno molto più grande e oggi forse avremmo un idea diversa di cosa sono stati quegli anni. Invece di stare a raccontarci cosa è successo, non so, nel foibe, avremmo anche capito che abbiamo molto in comune con i partigiani Greci, Francesi, Inglesi e perfino quelli Tedeschi, che ci sono stati anche loro e quindi forse avremmo già un’idea diversa di quegli anni e forse anche un’idea diversa della politica. Cioè noi abbiamo custodito male la memoria, intanto dovremmo rispiegarla in termini nuovi, non nazionalisti. Io sono rimasto stupito quando 4 anni fa ho scoperto che in Trentino c’è stato una brigata partigiana, della resistenza Italiana, dove di Italiano non c’era nessuno, erano tutti Tedeschi e Sloveni, TUTTI… Poi c’è anche il problema che noi non vogliamo accettare, che è stata anche una guerra civile, un momento in cui si sono fronteggiati due modi diversi di pensare all’Italia da parte degli Italiani, un modo democratico e un modo che era quello fascista e razzista. Tutto questo noi lo abbiamo eliminato, abbiamo cancellato pezzi di memoria storica, per esempio nel dover descrivere per forza la Resistenza come una guerra tra Italiani e Tedeschi o al massimo per evitare la colonizzazione Americana, che è vero che c’era anche quel problema. Per descrivere questo abbiamo ridisegnato la memoria in una maniera assurda. Noi abbiamo cancellato tutta la pagina del colonialismo Italiano, che è stata di una crudeltà mostruosa. In Libia le truppe Italiane fasciste al seguito del generale Graziani, giocavano al tiro al piattello con i bambini, facendogli corre e quando erano distanti gli sparavano, per vedere se riuscivano a colpire il bersaglio, essendo che il bambino corre più rapido, è un bersaglio più difficile. Questo era il livello della nostra colonizzazione, ma quando si parla del colonialismo Italiano si sente dire che abbiamo costruito le strade e le infrastrutture.. roba da matti! Però questi sono anche i frutti, non solo della distanza temporale, ma anche del cattivo uso che ne abbiamo fatto della memoria. Per cui c’è da narrare la resistenza in modo diverso e nuovo…”
Perché ricordarci nel 2019 ancora di Hannah Arendt?
Secondo me, in primis, bisogna ricordarci di Hannah Arendt perché è attuale non solo per le risposte che dà, ma soprattutto per i problemi che apre. In particolare ce ne è uno, su quale io stesso mi sto arrovellando da parecchio tempo. Perché Hannah Arendt ad un certo punto parla della complicità dei capi delle comunità ebraiche con lo sterminio nazista. Lei sostanzialmente racconta che i capi delle comunità ebraiche ritenevano di non aver scelta, nel senso che i nazisti avevano dato loro soltanto due possibili opzioni, o collaborare dando una serie di nomi e quindi salvando tutti gli altri, oppure fare finire nei lager tutti quanti. Questo avrebbe indotto i capi delle comunità ebraiche a collaborare, in pratica è la scelta del male minore.
Sul tema del male minore mi sto arrovellando da un po’ di tempo: da un lato ha ragione Hannah Arendt quando dice che compiere il male minore comunque significa compiere un male, quindi in realtà tu non stai salvando delle vite, ma stai rispondendo a due opzioni che ti ha dato il nemico e quindi stai facendo, in ogni caso, il suo gioco. Ma non è solo questo, la Arendt dice un'altra cosa molto interessante, dice che c’è sempre una terza via, che è non fare niente, ovvero il fatto di dire io non collaboro, non mi muovo e in questo modo getto nel caos i nazisti, perché a quel punto sta a loro dover organizzare la deportazione di tutti gli ebrei.
Tutto questo è molto vero, secondo me, in un caso come quello di Hannah Arendt, dove è molto chiaro quale è il male. Il problema è che nel quotidiano non sempre è così chiaro. Sarà anche per la formazione cattolica da cui provengo e da cui poi mi sono affrancato, ma sono cresciuto con l’idea che la violenza è sempre il male, uccidere una persona è male.
Solo quando ho incontrato quel vecchio partigiano, un episodio che ho ricordato alla Casa dello studente, a cui avevo chiesto se fosse stato così difficile imbracciare il fucile e mi aspettavo che lui o mi dicesse “si, è stato difficilissimo è stato un tormento morale”, oppure mi dicesse “no, io li volevo ammazzare tutti” e invece ha risposto “ non era un fucile, ma era un mitra!” ho cominciato a rendermi conto che il male lo individui, non nei mezzi, ma negli scopi. Perché uccidere un uomo è un male, sì, però la Resistenza in Europa non è che l’abbiano fatta con i fiori nei cannoni.. Ci sono dei mezzi che intrinsecamente sono anche cattivi, ma che servono purtroppo per realizzare uno scopo che è positivo. Lo stesso discorso vale anche al contrario, un mezzo molto buono può realizzare un male. Come per esempio in tempi di democrazia, nessuno direbbe che è stato abolito il diritto di voto, il suffragio universale. Però se io voto per eleggere dei rappresentanti a cui assegnare un certo potere, quello è il mio esercizio di sovranità, ma se io voto per delegare ad altri la mia sovranità e quindi sostanzialmente autorizzo una classe politica poi a fare quello che vuole, a quel punto io sto avvallando il loro potere con il mio voto; cioè sto usando uno strumento corretto, anche giusto, però nel modo sbagliato, con il fine sbagliato. Questo apre tutta una serie di domande, sulle quali io mi sto ancora interrogando.
Alla fine è bello tornare su Hannah Arendt, perché la sua è l’ultima grande riflessione etica che sia sta fatta nel Novecento e la sua attualità sta proprio nelle domande che apre. In fin dei conti una grande riflessione deve fare proprio questo…“.
Perché la nostra società dovrebbe essere pluralista?
Deve essere pluralista perché le società col pensiero unico le abbiamo sperimentate e non funzionano. Cioè sono società che anche quando il pensiero unico è mosso dai valori migliori in realtà poi trasgrediscono con gli stessi valori nei quali dicono di credere. Questo è il problema che abbiamo, io non ne faccio mai mistero di essere assolutamente di sinistra. Nutro anche una certa simpatia per Lenin, nel momento in cui effettivamente guida la Rivoluzione russa, però l’idea di Lenin era quella di dare tutto il potere ai Soviet, il che voleva dire creare delle condizioni per una democrazia reale dal basso, dove le decisioni fossero il frutto di un dibattito continuo. Invece in brevissimo tempo è diventata tutt’altra cosa, cioè ha infranto le sue stesse promesse ed è diventato il totalitarismo che conosciamo come Stalinismo, il pensiero unico, il monolitismo del partito che porta poi la società in un'altra direzione, non tanto diversa da quella di Hitler e neanche da quella di Mussolini. Ha ragione Hannah Arendt a dire che lo Stalinismo è un totalitarismo, non ha ragione quando dice che quello fascista è un totalitarismo meno realizzato, in realtà forse ne sapeva solo meno, come purtroppo alcuni politici Italiani.
Al giorno d’oggi il ritorno di atteggiamenti e/o comportamenti fascisti è più una questione di banalità o di ignoranza?
Le due cose vanno insieme di pari passo, quanto più si è ignoranti, tanto più facilmente si è banali. La banalità si nutre di ignoranza, non solo di quella, perché c’è una grande banalità in persone che hanno anche studiato. In particolare uno pseudo filosofo di questo periodo, Diego Fusaro, usa Marx per fargli dire delle cose che danno ragione a Salvini.
Diciamo che tentare di essere il meno ignoranti possibile è già un strumento che aiuta ad essere meno banali possibile. È la condizione che non è sufficiente però è necessaria. Quindi io credo che ci siano entrambe le cose: l’ignoranza non è che deresponsabilizzi, cioè l’ignoranza è una responsabilità, perché noi abbiamo anche la possibilità di non essere ignoranti, non è un destino essere ignoranti. Quindi quando sento dire: “Hanno detto una cosa sostanzialmente fascista, ma tanto non sanno nemmeno loro quello che dicono”, questo non diminuisce il problema, anzi forse lo aggrava. Soprattutto in tempi in cui va di moda dire che certe cose rappresentano delle attenuanti, in realtà sono delle aggravanti. Mi sto riferendo in modo particolare alle ultime sentenze contro le donne. Il problema della banalità è che non pensi alle conseguenze delle tue azioni, che tanto non te ne senti responsabile e questo va a braccetto con l’ignoranza. Quindi tentare di lottare contro la propria ignoranza è un modo per lottare contro il demone della banalità.
Questo è il problema, anche esistenziale, secondo me, che pone la Arendt in modo indiretto: Che cosa è il bene, se questo è il male?. Ma pone anche altre domande, ugualmente importanti come: Dove alberga la banalità in me? E quindi di conseguenza: Che cosa posso fare io per resistere al male? Quest’ultima domanda è molto personale, io su questo sono dell’idea che nessun grande cambiamento sociale possa escludere il cambiamento personale, ciascuno deve cambiare dentro di sé. Il primo problema devi affrontarlo con te stesso, per maturare l’autorevolezza per parlarne con altri. E siccome i tempi della storia ti dicono che bisogna fare in fretta, perché lo vedi come si imbarbarisce velocemente la gente, allora vuol dire che quel problema con se stessi bisogna affrontarlo molto velocemente...
Viviamo sicuramente in un’epoca in cui abbiamo perso i punti di riferimento. Ogni anno si celebrano anniversari dell’eccidio del Turchino, della Benedicta oppure della Liberazione… a forza di celebrazioni, allontanandoci nel tempo da quell’evento, si è perso po’ il senso. La domanda è: come si può ridare senso a quella storia?
Occorre ridefinire tutta la memoria. Il problema, per quel che riguarda per esempio la memoria del 25 aprile, non è solo che ci allontaniamo dall’evento, ma è anche che lo abbiamo custodito male, perfino quando eravamo più vicini all’evento. Abbiamo fatto diventare i 25 aprile delle messe cantate, delle prediche ai convertiti, delle cose in cui ci raccontavamo quanto la resistenza è stata eroica. Invece non l’abbiamo mai raccontata nel modo più giusto, il che non vuole dire fare l’operazione che ha fatto Gianpaolo Panza, ovvero spiegando che i partigiani hanno fatto cose atroci. Perché non si devono avere dubbi su dove fosse la ragione e dove fosse il torto, però, per esempio noi abbiamo raccontato la Resistenza come una questione tutta Italiana, come una prosecuzione del Risorgimento. E quindi abbiamo tentato di raccontarla dandone una versione molto nazionalista, e questo è un problema, che chiaramente è stata una scelta tutta politica, siccome in Italia non c’è mai stato uno spirito nazionale, perché l’Italia non è mai stata una vera nazione, e forse, va anche bene così, quindi si è cercato di costruirne una sulle memorie della Resistenza. Questo ha significato, che se ne è fatto un uso sbagliato, se invece avessimo collocato la Resistenza su un quadro Europeo avremmo capito che l’Italia partecipava ad un disegno molto più grande e oggi forse avremmo un idea diversa di cosa sono stati quegli anni. Invece di stare a raccontarci cosa è successo, non so, nel foibe, avremmo anche capito che abbiamo molto in comune con i partigiani Greci, Francesi, Inglesi e perfino quelli Tedeschi, che ci sono stati anche loro e quindi forse avremmo già un’idea diversa di quegli anni e forse anche un’idea diversa della politica. Cioè noi abbiamo custodito male la memoria, intanto dovremmo rispiegarla in termini nuovi, non nazionalisti. Io sono rimasto stupito quando 4 anni fa ho scoperto che in Trentino c’è stato una brigata partigiana, della resistenza Italiana, dove di Italiano non c’era nessuno, erano tutti Tedeschi e Sloveni, TUTTI… Poi c’è anche il problema che noi non vogliamo accettare, che è stata anche una guerra civile, un momento in cui si sono fronteggiati due modi diversi di pensare all’Italia da parte degli Italiani, un modo democratico e un modo che era quello fascista e razzista. Tutto questo noi lo abbiamo eliminato, abbiamo cancellato pezzi di memoria storica, per esempio nel dover descrivere per forza la Resistenza come una guerra tra Italiani e Tedeschi o al massimo per evitare la colonizzazione Americana, che è vero che c’era anche quel problema. Per descrivere questo abbiamo ridisegnato la memoria in una maniera assurda. Noi abbiamo cancellato tutta la pagina del colonialismo Italiano, che è stata di una crudeltà mostruosa. In Libia le truppe Italiane fasciste al seguito del generale Graziani, giocavano al tiro al piattello con i bambini, facendogli corre e quando erano distanti gli sparavano, per vedere se riuscivano a colpire il bersaglio, essendo che il bambino corre più rapido, è un bersaglio più difficile. Questo era il livello della nostra colonizzazione, ma quando si parla del colonialismo Italiano si sente dire che abbiamo costruito le strade e le infrastrutture.. roba da matti! Però questi sono anche i frutti, non solo della distanza temporale, ma anche del cattivo uso che ne abbiamo fatto della memoria. Per cui c’è da narrare la resistenza in modo diverso e nuovo…”
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